La transizione green al bivio. L’elettrico su strada non piace del tutto

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Difficoltà colossali in Europa e in Occidente nel perseguire la scelta di una mobilità totalmente a zero emissioni, – transizione green – causa principale l’incertezza globale.

Il mondo della mobilità si trova oggi al centro di una transizione epocale.

Forse è una prima fase, forse no. Certo è che l’Unione Europea al fine di promuovere nuove politiche basate su un futuro green e sostenibile, ha imposto alle case automobilistiche il divieto di vendita entro il 2035 di tutti i modelli a motore termico, ovvero con emissioni di Co2, a favore di propulsori totalmente elettrici, ed a zero emissioni.

 

transizione green

Transizione Green: quanto questa scelta convince l’Europa stessa e gli italiani? 

Stiamo subendo un vero bombardamento sulle gioie di questo cambio di rotta, tendendo però a tralasciare fattori molto più impattanti se si parla di inquinamento, molto più pericolosi dell’industria automobilistica, la quale in un decennio ha percorso passi da gigante nel diminuire le emissioni dei propri autoveicoli.

L’Italia si trova di fronte a dilemmi mastodontici: si parla tanto di ambiente, di sostenibilità, ma come giustificare in nome del green, interi paradisi terrestri come quelli in alcune terre della Sardegna ad esempio, venire espropriati al fine di radere al suolo tutto e costruire enormi distese di pannelli solari? Tenendo oltremodo conto che questi sono coltivabili e coltivati, come tanti altri spazi naturali sparsi per il mondo destinati alla medesima fine.

 

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Si è visto qualche anno fa che la Norvegia – avanti anni luce rispetto al resto d’Europa riguardo la mobilità elettrica – ha tentato di creare un intero parco auto totalmente a zero emissioni, ma si è dovuta ricredere dinnanzi alla concretezza della non sostenibilità totale del progetto.

Sembra pertanto impossibile che nel nostro bel Paese si abbia la convinzione di creare colonnine di ricarica in ogni parcheggio su strada, alimentarle, gestire un ipotetico intero parco auto caricato a pale eoliche e pannelli solari, realizzare centri di smaltimento delle batterie (peraltro letalmente inquinanti), creare una crisi occupazionale senza precedenti nel settore dell’automotive, e soprattutto sostentare i costi di una tale ambizione.

A causa di questi fattori, oltre a quello principale che al consumatore italiano l’elettrico su strada proprio non piace, assistiamo ad un verosimile cambio di passo.

 

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Stellantis, il celebre raggruppamento francese multibrand, sembra che voglia posticipare il proprio programma full-electric, affiancandolo alla scelta diversificata di proporre gli stessi modelli anche con motori termici o ibridi.

Addirittura il CEO di Toyota pare stia sviluppando motori alternativi puntando molto sull’idrogeno. Mercedes e Volkswagen Group lentamente stanno frenando la loro imposizione elettrificata, e pare che questo ritorno alle origini sia un po’ generalizzato dappertutto. L’americana Tesla sta vorticosamente diminuendo le vendite nonostante la sua politica del comprarla sotto costo, anche se a onor del vero la Cina ha pronta una flotta di micro marchi pronti ad essere immessi sul mercato occidentale, molto più economici, ma dalla dubbia affidabilità. 

Nelle grandi metropoli assistiamo anche ad un calo dell’offerta della cosiddetta micromobilità elettrica, costituita principalmente da biciclette e monopattini.

Probabilmente questa confusa transizione potrebbe girare anche intorno alla situazione geopolitica internazionale, dove sorgono conflitti in aree calde del mondo, peraltro nemmeno a dirsi, ricche di minerali e silicio.

L’origine di questa elettrificazione selvaggia ebbe inizio con ingentissimi investimenti da parte delle compagnie petrolifere, unite all’accordo con le principali case automobilistiche mondiali nel produrre motori a zero emissioni.

Il petrolio però sarebbe restato il principale trait d’union per alimentare generatori ed industrie produttrici di energia, in sinergia a pannelli solari e pale eoliche. conseguentemente le multinazionali si diedero parecchio da fare nel cercare nuovi territori dai quali sottrarre materie prime, facendo presumibilmente irretire altre nazioni che indubbiamente avrebbero voluto buttarsi nel business, facendo leva sulla loro indispensabilità nel creare a basso costo microchip e componenti elettronici.

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Cosa succederebbe se ad esempio Cina, Corea e Russia, principali detentrici di materie prime decidessero di alzarne i prezzi, o peggio, impossessarsi con la forza di Stati senza l’ombrello protettivo delle più grandi superpotenze?

Nello specifico, la maggior parte della produzione di microchip destinata all’occidente è sita proprio a Taiwan, ma con la rivendicazione senza compromessi dell’unica Cina del Partito Stato di Pechino, quale sarebbe l’impatto in Europa se quest’ultimo dovesse impossessarsi con la forza di Taiwan?

Stessa cosa con il petrolio ucraino e le terre sottostanti le regioni del Donbass. Tradotto, gli asiatici vogliono impossessarsi delle risorse di cui l’occidente necessita.

 

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Un mercato non certo stabile al momento. Ciliegina sulla torta poi se Donald Trump occupasse la presidenza degli Stati Uniti d’America per la seconda volta. Da buon ultranazionalista tenderebbe a isolare Cina e resto dei paesi in via di sviluppo, spostando la ricerca e produzione delle tecnologie indispensabili principalmente in America, avendo una sorta di monopolio globale sui prezzi di vendita.

Ma il quesito forse più importante – ed inquietante forse – resta un altro: cosa accadrebbe nel caso in cui il mercato e la situazione internazionale non permettessero di monetizzare i colossali investimenti, ed i prospetti di guadagno delle potentissime multinazionali coinvolte?


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