Conferma ergastolo per Alessandro Impagnatiello: come ci si può sentire al sicuro con chi non è in grado di proteggerti? New

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Dopo la sentenza d’appello per l’omicidio di Giulia Tramontano, resta un vuoto profondo: esclusa la premeditazione, ma non il dolore. La giustizia riconosce il crimine, ma fatica ancora a chiamarlo per nome.

Si è concluso ieri il processo d’appello per l’omicidio di Giulia Tramontano, con la conferma dell’ergastolo per Alessandro Impagnatiello, l’uomo che nel maggio 2023 l’ha uccisa con 37 coltellate mentre lei era incinta al settimo mese. I giudici, tuttavia, hanno escluso l’aggravante della premeditazione, suscitando sconcerto e dolore non solo tra i familiari della giovane donna, ma anche nell’opinione pubblica che da tempo segue questo caso con un coinvolgimento che va oltre la cronaca.

In aula, la freddezza dell’imputato ha fatto da contrappunto al dolore muto della famiglia di Giulia, che ha esposto una sua foto davanti al banco dei giudici, quasi a chiedere che la sua presenza – se non più in vita – fosse almeno onorata nella verità dei fatti. Ma la sentenza ha spezzato quel fragile equilibrio tra giustizia e realtà: come si può non parlare di premeditazione, quando ci sono mesi di ricerche online su “quanto veleno serve per uccidere una donna”, quando quel veleno – somministrato per settimane – ha preceduto un gesto finale che non è stato un raptus, ma un’azione violenta, reiterata, devastante?

 

 

Alessandro Impagnatiello

 

È una domanda che oggi pesa come una pietra: possiamo sentirci al sicuro, come donne, come persone, quando neppure la giustizia riconosce fino in fondo la verità dei comportamenti che ci uccidono? Quando chi ti vive accanto, chi dice di amarti, ti annienta lentamente, con parole false, azioni calcolate, violenza nascosta dietro una quotidianità che si finge amore?

La sorella di Giulia, Chiara Tramontano, ha espresso la rabbia di molti: “Vergogna. La chiamano legge, ma si legge disgusto. L’ha avvelenata per sei mesi. Poi l’ha uccisa. E per lo Stato non è premeditazione.” Le sue parole, dure e dirette, sono lo specchio di un dolore che non chiede vendetta, ma riconoscimento. Che non cerca un colpevole, ma pretende che la responsabilità venga chiamata con il suo vero nome.

 

 

La decisione della Corte è parsa un passo indietro, soprattutto considerando che la stessa premeditazione era stata riconosciuta in primo grado, basata su una ricostruzione dettagliata che indicava in Impagnatiello un piano articolato, portato avanti per mesi con freddezza e strategia. Il fatto che tale aggravante sia stata ora esclusa ha aperto una ferita non solo nella famiglia, ma nel tessuto di fiducia – già sottile – che lega la società civile alla giustizia.

 

 

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Eppure, il punto non è solo giuridico. È etico, culturale, umano.
Come possiamo insegnare alle ragazze a riconoscere i segnali di un pericolo, se lo stesso sistema che dovrebbe tutelarle minimizza, scinde, assolve i meccanismi più subdoli del controllo e della violenza?
Come possiamo dire loro di fidarsi, quando il tradimento più letale arriva da chi è più vicino, e l’apparato che dovrebbe restituire verità ne attenua il peso?

La violenza che Giulia ha subito è stata doppia: prima fisica, poi simbolica. Uccisa nel corpo, e poi, in parte, nella narrazione che non ha saputo restituire per intero la brutalità della sua fine.
La giustizia riparativa – su cui la Corte d’Assise d’Appello di Milano si è riservata – in questo contesto suona come una provocazione. Perché prima di riparare, bisognerebbe riconoscere. Guardare senza girarsi altrove. Senza proteggere chi ha negato la verità per mesi. Senza dignità concessa a chi non ha mai mostrato reale pentimento.

 

Alessandro Impagnatiello

 

Non è solo un processo. È la rappresentazione tragica di quanto sia ancora fragile il confine tra giustizia e impunità, tra legge e verità, tra sicurezza e abbandono.
È una domanda lasciata sospesa nell’aria di un’aula di tribunale, ma anche nelle case, nei corridoi delle scuole, nelle strade dove troppe donne camminano ancora guardandosi alle spalle.
Come ci si può sentire al sicuro con chi non è in grado di proteggerti?
Una domanda che non chiede risposta. Ma che pretende coscienza. E memoria.

G.C.


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