Quando l’innocenza non va oltre il ragionevole dubbio

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“Si è innocenti fino a prova contraria”: una massima giuridica che dovrebbe tutelare ogni imputato fino a quando non venga dimostrata, oltre ogni ragionevole dubbio, la sua colpevolezza. Tuttavia, nella pratica giudiziaria italiana, questo principio talvolta sembra ribaltarsi: è come se l’imputato dovesse dimostrare la propria innocenza, mentre il dubbio – anziché assolvere – viene spesso usato per condannare.

In alcuni casi, il dubbio non nasce da una valutazione obiettiva delle prove, ma da negligenze investigative, superficialità o addirittura malafede da parte di chi è chiamato a indagare o a giudicare. Ed è proprio in questi frangenti che il sistema mostra le sue crepe più evidenti.

I grandi casi di cronaca nera italiana sono lì a dimostrarlo. In questi giorni è tornato sotto i riflettori il delitto di Garlasco, ma è impossibile non pensare anche alla strage di Erba, al caso di Meredith Kercher a Perugia, a Yara Gambirasio, Sarah Scazzi, al Mostro di Firenze. Episodi in cui, al netto delle condanne, permane ancora oggi l’ombra di un dubbio mai pienamente dissipato.

In molti di questi processi, le sentenze si sono basate su elementi indiziari, su ricostruzioni parziali, oppure su un insieme di prove non sempre solide. Eppure, in un’aula di giustizia, il dubbio dovrebbe salvare, non condannare.

 

 

Col passare del tempo, alcuni avvocati tenaci hanno ottenuto la riapertura dei processi, o ne hanno chiesto la revisione. In alcuni casi si è dimostrato che l’impianto accusatorio non era così solido, che le prove erano deboli, o che – peggio ancora – ci si era accaniti sull’imputato, trascurando piste alternative e potenziali responsabili.
L’Italia si ritrova così con condanne clamorose che, a distanza di anni o addirittura decenni, lasciano aperta una domanda angosciante: e se avessimo sbagliato tutto? Se l’accusa, la magistratura o la stampa avessero cercato il colpevole più comodo, più utile, più spettacolare per chiudere rapidamente un caso?

 

 

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L’impressione – inquietante – è che la spettacolarizzazione mediatica sia talvolta usata per distrarre l’opinione pubblica da verità scomode, o per coprire errori giudiziari che, se ammessi, metterebbero in discussione la credibilità delle istituzioni. In altri casi, viene da pensare che qualcuno abbia voluto far carriera sulla pelle di un innocente, o che si siano insabbiate le indagini per proteggere nomi potenti.

 

 

Non si tratta solo di negligenza, ma di un sistema che, in alcuni casi, sfiora la complicità. E la domanda che resta è duplice: quanti innocenti stanno scontando pene ingiuste? E chi paga per averli mandati in prigione, per averli diffamati, per aver costruito prove false o interpretato i fatti a senso unico?
Infine, una riflessione ancora più amara: possiamo ancora avere fiducia nella giustizia, quando troppe volte le verità processuali sembrano essere più funzionali che oggettive?


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