La triste fine di Porfirio Rubirosa, grande estimatore di Ferrari e di belle donne.
Sole tropicale, volti abbronzatissimi e spumeggianti, belle donne al seguito ovunque, shopping compulsivo nelle vie più in delle metropoli; e poi le notti.
Quelle notti brave che cominciavano con una cenetta in compagnia dell’attrice di turno, per poi all’alba terminare in un candido letto dalle lenzuola di seta, direttamente davanti ad un finestrone dal quale si poteva scorgere una vista incantevole.
In breve ecco riassunta la vita dei veri playboy, non certo i decantati dandy tardo decadentisti di fine ottocento. Gente nata ricca, che prediligeva il piacere a tutto il resto e facenti parte di un’èlite intoccabile, visto lo spessore delle loro amicizie.
Si parla ovviamente di persone del calibro dell’avvocato Gianni Agnelli nel pieno della sua giovinezza, nella sua barca. Oppure del facoltoso fotografo Gunther Sachs, di Gigi Rizzi e della sua combriccola di casinisti definiti con disprezzo “Les Italiens” dagli invidiosi avventori del Papagayo di St. Tropez.
Ma soprattutto dal numero uno, dalla leggenda della dolce vita anni 50-60: l’adamantino Porfirio Rubirosa. Colui che in un’intervista esordì con un: “Lavorare? No grazie, toglie tempo al divertimento.”
Da sempre questi prodotti del benessere sono stati accompagnati anche dalle loro seconde amanti oltre che dalle modelle: le Ferrari.
Non risulta al mondo nessuno di questi intrepidi cacciatori di doti che non ve ne sia stato attratto, e che non ne avesse posseduto almeno un modello.
Ferrari era all’epoca il meglio dell’automobile, ed il meglio doveva andare di pari passo con il meglio: guai a presentarsi in compagnia di una Brigitte Bardot a bere rosé con una pachidermica berlina scura. Il playboy guidava solo auto sportive, meglio se decapottabili e fregiate dell’epico cavallino rampante cromato. Questa era l’icona standard.
Soventemente però queste auto risultavano essere più spietate di una capricciosa principessa all’apice della gelosia; e proprio Porfirio Rubirosa ne fu il macabro simbolo di questa ribellione meccanica: si schiantò con la sua 250 GT Pininfarina convertibile al termine di una notte di follie, in un alba non proprio dorata.
A proposito di quest’ultimo va sottolineata la sua smodata passione per le vetture di Maranello, tanto da partecipare a svariate competizioni, fra le quali la 24 ore di Le Mans del 1950 alla guida di una potente 166MM, da lui condotta e dal copilota Pierre Leygonie, ma ritiratosi per problemi alla frizione.
Tanto facoltoso quanto furbo, Rubirosa poteva vantare la confidenza del Drake in persona, ma se anche questo non fosse bastato, secondo una sua biografia fu proprietario di altre Rosse, fra le quali spiccavano anche una 166MM carrozzata Vignale seconda serie, una 375MM Berlinetta Pininfarina, ed altri gioiellini similari.
Oggi più che mai in molti vorrebbero emulare il suo stile di vita: diplomatico e gentleman driver di vetture da urlo, figlio di un generale dell’esercito e grazie a lui entrato a presenziare (per non scrivere lavorare) nel consolato della Repubblica Domenicana a Parigi.
Sposò la bellissima Flor de Oro Trujillo Molina quando questa aveva solo diciassette anni, figlia del dittatore domenicano Rafael Léonidas Trujillo Molina, la quale ne fu talmente plagiata da regalargli un aereo adibito ad abitazione volante.
Ma visti i continui tradimenti di lui, il padre impose l’immediato divorzio, ma ciò non scoraggiò Rubirosa minimamente, anzi, da li la sua vita continuò ad essere costellata da stelline miliardarie del jet-set internazionale. Fu il re indiscusso della Costa Azzurra d’estate e delle Alpi svizzere d’inverno. Arrogantissimo e assiduo frequentatore di locali, tanto da litigare con il suo rivale Gigi Rizzi a causa della Bardot, ed idolatrato nei ristoranti dove gli avventori soprannominavano i fallici macinapepe come “i Rubirosa”.
Gli fu addirittura dedicata una canzone molti anni dopo da Fred Buscaglione, intitolata Porfirio Villarosa. Questo spiega la frizzantissima vita di uno sciupafemmine senza precedenti.
Ma il 5 luglio 1965 a Parigi accadde l’imprevedibile: per la prima volta fu lui ad essere tradito. Dopo l’ennesima notte di baldorie trascorse al Jimmi’z di Montecarlo, di ritorno a Parigi, quando il resto del mondo si alzava per recarsi al lavoro, perse il controllo della sua splendida Ferrari cabriolet: un modello costosissimo e dannatamente potente. Terminò la sua corsa contro un albero in Bois de Boulogne rimanendoci secco a soli cinquantasei anni.
Oggi l’auto non é dato a sapere che fine abbia fatto, ma la cosa certa è che se fosse nel garage di qualche eccentrico collezionista, questi potrebbe davvero rivivere l’atmosfera che si respirava in quegli anni.
Anni in cui la dolce vita veniva iniettata in vena come una dose estrema di romantica euforia. Chissà se oggi quella 250 GT Pininfarina cabriolet potesse parlare cosa potrebbero svelarci i suoi sedili, e chissà cosa davvero ha portato il playboy a baciare così ardentemente quel platano. D’altronde rivali in amore ne aveva eccome, ed era pur sempre un diplomatico ma dalla vita tutt’altro che diplomatica.
Nato a Milano il 9 Agosto 1974, ha conseguito studi ed esperienze lavorative di progettazione meccanica. Agli inizi del 2000 quasi per gioco coltiva l’hobby della scrittura, divenendo inaspettatamente giornalista pubblicista. Ha collaborato con svariati quotidiani scrivendo di cronaca e inchiesta, nonché con magazines mensili dedicati alle auto storiche per via della sua passione per il collezionismo automobilistico di nicchia. Oggi lavora in una fondazione nel centro di Milano, ma non appena il tempo glielo consente, ne approfitta per condividere notizie ed opinioni. La sua citazione preferita, come un mantra, la ruba al celebre film “Scent of woman,” in cui Al Pacino, nei panni di un colonnello non vedente dell’esercito, risponde alla domanda del suo giovane badante sull’ammirazione che ha delle donne: “Le donne le amo sopra ogni cosa. Al secondo posto, ma con lunga distanza… c’è la Ferrari.” Carpe Diem.